lunedì 3 marzo 2008

FINALE DI PARTITA

GRANDE RITORNO - di nuovo nei Teatri Italiani:
Teatro de gli Incamminati
FRANCO BRANCIAROLI
in
FINALE DI PARTITA di Samuel Beckett
con Tommaso Cardarelli e Alessandro Albertine con la partecipazione di Lucia Ragni
regia Franco Branciaroli
scene e costumi Margherita Palli
luci Gigi Saccomandi


Nel 2006, anno del centenario della nascita di Samuel Beckett, Franco Branciaroli ha messo in scena - nella duplice veste di attore e regista - uno dei capolavori del drammaturgo irlandese: Finale di partita. Lo spettacolo - una grande prova d'attore e un allestimento che punta al tragicomico - riscuote talmente tanto successo di critica e di pubblico da essere richiesto per 3 stagioni nei maggiori teatri italiani (debutto nazionale marzo 2006 Teatro Argentina di Roma).
Considerato un classico del teatro contemporaneo, Finale di partita è riconosciuto come il maggior lavoro teatrale di Beckett e uno dei più significativi di tutta la sua opera. L'occasione del centenario del grande scrittore irlandese, premio Nobel per la letteratura, è coincisa con la decisione di Franco Branciaroli di affrontare sulla scena un personaggio come quello di Hamm, di cui si possono ricordare le precedenti interpretazioni di Gianni Santuccio negli anni Ottanta e di Carlo Cecchi nel 1995. D'altro canto fu lo stesso Beckett a definire Finale di partita, in un'intervista rilasciata al Corriere della sera, un vero e proprio match teatrale per mattatori.
Della parola beckettiana Branciaroli mette in rilievo soprattutto la dimensione tragicomica che, particolarmente congeniale alla sua recitazione, perfettamente si attaglia a quella che è, per dichiarazione dello stesso Beckett, la battuta e la sintesi principale del testo: ovvero che niente è più comico dell'infelicità. L'allestimento dello spettacolo, diretto, secondo le precisissime didascalie di Beckett, dallo stesso Branciaroli ("Non puoi fare la regia di Finale di partita - spiega Branciaroli - perché è già tutto scritto dall'autore. Perfino quanti minuti l'attore deve stare in silenzio"), punta proprio a dare risalto all'impossibilità del mondo-superstite di comunicare eppure alla sua condanna di continuare a produrre parole e rumore, quasi che il silenzio coincidesse con la morte. Chiuso ciascuno nella propria infermità (motoria, linguistica e visiva quella di Hamm, ancora motoria quella di Clov, addirittura pre-agonica quella dei due genitori ridotti a monconi dentro a due bidoni carichi solo di passato), lo spettacolo cerca dunque di sfogliare le molte sfaccettature racchiuse dentro al testo dell'autore irlandese (spesso metateatrali o religiose, come di chi non aspetta più Godot ma vive tragicamente una grande nostalgia per il sacro), anche con sorprese, tocchi e accenti assolutamente originali che si rifanno ad una lettura profonda della scrittura di Beckett. Così è per la scelta di Franco Branciaroli di dare risalto all'ispirazione clownesca dei personaggi, tanto che lo stesso Hamm parla con l'accento francofono dell'ispettore Clouseau (era per altro intenzione di Beckett scritturare per quel ruolo Peter Sellers).Parte integrante della regia sono la scena disegnata da Margherita Palli, che al vuoto esistenziale beckettiano dà concretezza sospendendo l'azione su un vuoto fisico, e le luci di Luigi Saccomandi che, totalmente allampanate e inverosimili, rendono sensibile la consistenza assolutamente antinaturale di ogni residua esistenza.
Scrive Branciaroli nelle sue note di regia:"Paradossalmente, i testi di Beckett oggi non sono più assurdi: si sono avverati. Il mondo rappresentato è quanto resta dell'ultimo naufragio. Anche i personaggi in gioco sono dei resti alla deriva. Hamm è cieco e immobilizzato sulla sedia a rotelle, il padre e la madre vegetano inchiodati dentro due bidoni della spazzatura, dai quali emergono, se Clov alza il coperchio, con la sola testa. Clov può ancora camminare, ma senza potersi piegare né sedere. E anche questi mi paiono simboli della condizione umana, validi oggi. Il messaggio di Beckett sull'uomo è tragicamente vero, la sfida che mi sono proposto è farlo arrivare togliendo peso alle parole. Non per togliere peso al tragico: anzi, per renderlo più efficace".

SU FINALE DI PARTITA. L'assurdo, l'essere e il nulla
di Luca Doninelli
E' curioso come la chiacchiera culturale abbia fatto finire Samuel Beckett nel novero dei cosiddetti poeti dell'assurdo, quando la stessa formazione del grande scrittore dublinese riconduce ad altre vie interpretative. Il filosofo Adorno fa girare tutta la sua lettura beckettiana intorno al tema dell'insignificanza (che è un altro nome dell'assurdo) del linguaggio. Il nulla delle parole sarebbe, in qualche modo, la moneta (falsa) con la quale paghiamo il nulla delle cose.Se, però, vogliamo mantenere quella parola, "assurdo", allora dobbiamo ammettere che, con questa parola, il teatro del secondo Novecento, Beckett in primis, designa, più che l'insignificanza - abbondantemente documentata dalla massima parte della letteratura del tempo, tutta intrisa di nichilismo - una paradossale resistenza ad essa.Come se "assurdo" e "nulla" - che di per sé sono parenti - scoprissero una reciproca, strana eppure innegabile avversione. L'assurdità di Finale di partita non sta nell'insignificanza, bensì nella resistenza che ad essa oppone un estremo brandello di umanità raccolto in una stanza, che potrebbe essere l'ultima stanza del mondo. L'apparente insulsaggine dei discorsi e delle situazioni sembra rendere ancora più reali i corpi che stanno al centro della scena. In un'atmosfera di inesistenza, questi corpi esistono - insensatamente, assurdamente, senza una ragione, ma esistono. Assurdo non è che la vita non abbia senso, assurdo non è "l'infinita vanità del tutto": assurdo è che in questa insensatezza, in questa vanità, qualcosa esista. Sono corpi umani, che parlano, pensano, si adirano, si rappacificano, si dispiacciono e qualche volta - udite udite - sperano. Che nel mare del nulla qualcosa si ostini ad essere: questo è l'assurdo. Questa constatazione, però, non lascia le parole così come sono, ma le trascina in un nuovo clima di senso. Rileggendo le battute, i brani (come lo staziante racconto di Hamm), i rari pensieri noi ci accorgiamo che sono tutt'altro che insensati. Essi sono stati semplicemente sottratti al regime di menzogna della chiacchiera quotidiana, dove tutti i conti sembrano tornare.Finale di partita parla di una partita, appunto. La lingua, il parlare, l'ascoltare sono una partita da giocare, nella quale ciascuno è chiamato a fare la propria mossa. Non ci sono regole del gioco predeterminate (l'dea della lingua e del pensiero e della cultura come gioco, oggi così di moda e così all'opposto rispetto a Beckett!), tranne quella del croûpier: Faîtes votre jeu, fate il vostro gioco. Al centro di questo parlare non c'è più un "discorso", ma solo la presenza fisica di questi corpi. E non è un caso che, d'un tratto, Hamm esca allo scoperto. Alla domanda del cinico servo Clov ("Perché questa commedia tutti i giorni?"), Hamm risponde: "La routine. Non si sa mai"Hamm - (...) Clov!Clov - Sì.Hamm - Che sta succedendo?Clov - Qualcosa sta seguendo il suo corso.Hamm - Clov!Clov - (Irritato) Che c'è?Hamm - Non può darsi che noi... che noi... si abbia un qualche significato?La serietà con la quale Beckett giunge a questo passo, la sua totale mancanza di sarcasmo, la dolente poesia che accende il cuore (Hamm sostiene di aver guardato dentro di sé e di avere visto "una cosa viva") ci sospingono - come nelle strazianti parole incise su bobina de L'ultimo nastro di Krapp - in una direzione che col gioco nichilista non ha niente in comune. E' vero: la lingua è distrutta, spezzettata come una città bombardata senza più case né strade. Ma proprio questo frazionamento fa crescere i singoli pezzi, ossia le parole, gettandoci nel baratro di una decisione totalmente libera. Il "senso" non è un già-dato, ma una nostra decisione radicale. La più famosa battuta del testo, che Beckett mette in bocca a Nell ("niente è più comico dell'infelicità") ci riporta a questa condizione. Esiste una strana analogia, richiamata anche dal nome del protagonista (Hamm), tra Finale di partita e Amleto (Ham-let). Nei due capolavori assistiamo al tentativo di introdurre il nulla come nuovo ordine dell'universo, e alla tenace resistenza che un mondo di cose oppone a questa invasione. Perché non possiamo scegliere il nulla? Non sarebbe tutto più facile? E invece ecco qua: sognamo padri uccisi, anime simili a "una cosa viva": sogni che vengono a turbare la tranquillità anestetica delle nostre giornate e ci fanno dire, come Hamm (e come Amleto): "E tuttavia esito, esito a... farla finita".


in tournée a partire dal 7 marzo, con una tappa al Franco Parenti di Milano dal 1 al 6 aprile, al Teatro Tor Bella Monaca di Roma dal 18 al 20 aprile.

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